Muoversi 2 2023
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L’AGENDA MONDIALE DELL’ENERGIA NON PASSA PER L’EUROPA

L’AGENDA MONDIALE DELL’ENERGIA NON PASSA PER L’EUROPA 

di Carlo Andrea Bollino

Carlo Andrea Bollino

Professore di Economia Università di Perugia, Senior Fellow Luiss Business School

Perché gli scenari macroeconomici si intrecciano con la questione energetica? Non è facile dare una risposta a questa domanda, perché l’interconnessione fra macroeconomia ed energia è talmente complessa, i fili sono talmente intrecciati, che qualsiasi analisi rischia di diventare incompleta o parziale.

Vorrei partire dall’identità di Kaya che dice che il tasso di crescita delle emissioni di CO2 dipende da 4 fattori: il tasso di crescita della popolazione, il tasso di crescita del PIL pro-capite, il tasso di crescita dell’intensità energetica e il tasso di crescita dell’intensità carbonica. Come è noto, i primi due termini sono positivi per la crescita del benessere e i secondi due dovrebbero essere negativi per controbilanciare la crescita delle emissioni.

Occorrerebbe dunque almeno l’1% di miglioramento tecnologico dell'intensità energetica e un'addizionale 1% di miglioramento dell'intensità carbonica per poter stabilizzare il tasso di crescita delle emissioni

Assumendo una continuazione dello sviluppo storico dell’ultimo mezzo secolo, risulterebbe una crescita del PIL del 2% medio annuo tra il 2019 e il 2050, in confronto a 3,2% nel periodo 1965-2019. Le previsioni dell’ONU indicano che popolazione mondiale arriverà a 9,7 miliardi 2050 e quindi con un tasso di crescita dell’1%, il che significa che il PIL pro-capite crescerà anch’esso di almeno l’1%. Occorrerebbe dunque almeno l’1% di miglioramento tecnologico dell’intensità energetica e un’addizionale 1% di miglioramento dell’intensità carbonica per poter stabilizzare il tasso di crescita delle emissioni. Ma per l’obiettivo di emissioni zero al 2050 occorre di più: secondo la raccomandazione dell’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) sarebbe necessario aumentare il tasso di miglioramento dell’intensità energetica al 4% annuo per ottenere 1/3 dell’obiettivo di emissioni nette al 2050.

Per quanto riguarda l’ultimo fattore, l’intensità carbonica, il pacchetto europeo “Fit for 55” prevede il raggiungimento della riduzione del 55% delle emissioni, con un livello obiettivo nel settore elettrico di circa 110 gCO2/KWh contro i 275 del 2021. Ma l’Europa rappresenta meno del 10% delle emissioni mondiali.

Sempre secondo la AIE, l’obiettivo di decarbonizzazione al 2050 si dovrebbe ottenere con la riduzione dei consumi di fossili dall’80 al 20% del fabbisogno mondiale, con la penetrazione all’80% dei veicoli elettrici e la quintuplicazione del livello di investimenti in fotovoltaico ed eolico fino al 2040.

Non sembra inappropriato commentare che siamo ancora lontani e che questo scenario ha necessità di un’analisi SWOT (streght-weakness-opportunity-threat), cioè: forza, debolezza, minacce, opportunità.

I punti di forza delle politiche europee sono quelli di tracciare un segnale di avvertimento, di forte consapevolezza e di esempio di avanguardia nel mondo.

I punti di debolezza sono rappresentati, dall’opportunismo nelle negoziazioni. Ad esempio, se un paese alla COP dice che raggiungerà gli obiettivi nel 2060 invece che nel 2050, si crea un vantaggio competitivo indebito. Niente di nuovo sotto il sole, come ben noto alla macroeconomia internazionale, con il classico caso della svalutazione competitiva delle politiche “beggar-thy-neighbor”: svaluto il mio tasso di cambio per rendere più competitive le mie esportazioni. Con il linguaggio di oggi: continuo l’utilizzo di energia più inquinante perché meno costosa e rendo le mie esportazioni più competitive, a spese dell’ambiente.

Le minacce sono date dallo sfasamento fra l'orizzonte politico di breve termine di chi vuole essere rieletto e le necessità di sacrifici di lungo periodo da imporre alla popolazione. Le opportunità sono quelle delle invenzioni e dei miglioramenti tecnologici che i nostri laboratori di ricerca, le nostre università e le nostre aziende portano avanti ogni giorno

Le minacce sono date dallo sfasamento fra l’orizzonte politico di breve termine di chi vuole essere rieletto e le necessità di sacrifici di lungo periodo da imporre alla popolazione. 

Le opportunità sono quelle delle invenzioni e dei miglioramenti tecnologici che i nostri laboratori di ricerca, le nostre università e le nostre aziende portano avanti ogni giorno.

Di queste quattro punte del dilemma SWOT, a mio modesto avviso, il problema del velato protezionismo che sta risorgendo a livello mondiale è quello più importante.

L’inizio strisciante di questo fenomeno lo possiamo far risalire al rischio, del quale si è tanto parlato dopo il lockdown del 2020, della mancanza di forniture nella filiera globale della catena del valore. Sono state di fatto ripensate le strategie di offshoring, portando alla ribalta questa nuova idea del reshoring. Ma, ovviamente, si sta parlando di visioni di velato protezionismo, perché se mi produco tutto in casa, ho ricominciato a fare una politica di implicito protezionismo dell’industria nazionale. Ora le politiche del rafforzamento dell’industria nazionale, tipo “Picking in the winner”, già le avevano proposte i francesi negli anni ‘70, subito dopo la rottura del sistema di Bretton Woods. Quindi, potremmo assistere a un nuovo corso e ricorso della storia, con un aumento del nazionalismo industriale, tipo Buy American, come risposta alle incertezze del sistema monetario e di commercio internazionale?

In questo contesto, sebbene la risposta maestra sia quella del dialogo del multilateralismo, come è noto, una regionalizzazione dei problemi sia di conflitti, ahimè, militari come quelli che sta vivendo l’Europa ma anche l’Asia, potrebbe comportare una nuova regionalizzazione delle politiche commerciali?

Sarebbe pernicioso che ricominciassimo con mercati dell’energia regionalizzati, magari in nome del concetto di sicurezza energetica.

Ad esempio, un segnale a mio avviso non positivo si è avuto recentemente nel mercato petrolifero. Alcuni commentatori vicini alla finanza internazionale newyorkese hanno offerto l’interpretazione di una Arabia Saudita che si allontana dalla tradizionale amicizia con gli Stati Uniti, con l’aggressiva politica di riduzione delle quote in sede OPEC che mina la ripresa internazionale. Ma c’è un’altra verità, che hanno offerto i sauditi, e cioè che le vendite allo scoperto, preparate proprio dalla finanza internazionale anglosassone, stavano speculando al ribasso sul prezzo del petrolio e il taglio delle quote OPEC è stata una risposta per combattere la speculazione.

Da europeo mi auguro sinceramente di sbagliare, ma con il 60% del petrolio saudita esportato a Cina, Giappone, Korea e India, cioè quella parte del mondo che prevede una crescita del PIL del 4-5% al 2050, l’agenda mondiale dell’energia sarà dettata sempre più dall’Asia.